In.J.Awa.Ra – una sensibilità diversa

Dite, anche voi il 31 dicembre avete fatto i vostri buoni propositi per l’anno nuovo? Bene, qualcosa del genere l’hanno fatta anche i 191 Stati membri dell’ONU, più in grande e in un’occasione particolare; non all’inizio del nuovo anno bensì all’inizio del nuovo millennio, quello che stiamo vivendo in questo momento.

Insomma, un nuovo millennio non è una cosa che capita tutti i giorni e non lo si può prendere alla leggera, occorre serietà, e analizzando i problemi più gravi che tutto il genere umano condivide, l’ONU ha stabilito 8 obiettivi da realizzare: dimezzare la povertà estrema e la fame, rendere universale l’istruzione primaria, promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne, ridurre la mortalità infantile, migliorare la salute materna, combattere l’HIV/AIDS, la malaria ed altre malattie gravi, garantire la sostenibilità ambientale e portare avanti una collaborazione mondiale per uno sviluppo sostenibile sia energetico sia sociale. Sono questi i cosiddetti “Obiettivi di sviluppo del millennio”.
Ma non lasciatevi ingannare dal nome, non si hanno a disposizione mille anni per ottenere questi importantissimi risultati, anzi, il limite stabilito per raggiungerli è… il 2015!
Colpiti?
Ebbene è proprio così, non manca più molto al momento in cui si dovranno tirare le somme, siamo al rush finale. Ma se questa fosse una partita di calcio (metafora che non svaluta per nulla l’argomento di cui parlo), quale sarebbe il risultato parziale? Le più recenti immagini che potremmo analizzare alla moviola sono quelle fornite dallo United Nations Millennium Development Goals Report del 2011. A più di 10 anni dalla firma degli accordi sono molti i Paesi che hanno già vinto la loro gara contro povertà, fame, carenza di istruzione elementare e malattie gravi, tra cui anche numerosi Stati africani (Burundi, Rwanda, São Tomé e Príncipe e Togo hanno raggiungo o stanno per raggiungere il grado di diffusione dell’istruzione richiesto e si trovano sulla buona strada anche Beni, Burkina Faso, Etiopia, Guinea, Mali, Mozambico e Nigeria). Il numero di bambini sotto i 5 anni che muoiono a causa delle malattie e della scarsa igiene è diminuito di ben 4 milioni in tutto il mondo tra il 2000 e il 2009; e anche le vittime della malaria sono calate del 20% nello stesso periodo grazie alla collaborazione internazionale e agli aiuti umanitari. Se gli esempi di questi Paesi dimostrano la realizzabilità degli obiettivi prefissati, non si può ignorare il divario che rimane incolmabile tra le zone rurali e quelle urbanizzate, né il fatto che ci sono altri Paesi rimasti molto indietro nella diffusione omogenea di strutture sanitarie e scolastiche, nel garantire l’effettiva parità tra uomo e donna e nel sanare le rivalità tra etnie differenti, elementi che influiscono molto negativamente su tutti gli aspetti della realtà quotidiana di questi Stati e dei loro cittadini.
Un quadro generale diviso a metà da una profonda spaccatura tra i successi ottenuti e il lavoro ancora da fare, tra ottimismo e pessimismo; spaccatura che, nonostante gli ulteriori passi avanti compiuti a livello globale, purtroppo è presente ancora oggi. Ma c’è un modo molto semplice in cui tutti potremmo aiutare a migliorare a costo zero questa realtà: si tratta di evitare i luoghi comuni diffusi a proposito delle zone del mondo colpite da questi problemi, evitare di identificarle con gli stereotipi che spesso ci sono proposti, combattere i pregiudizi strumentalizzati e tenere invece presente il fatto che uno stereotipo annulla la ricchezza che è nelle diversità di una moltitudine di individui, nasconde dietro di sé la pluralità della realtà e ci inganna. Questa è la riflessione proposta dall’Associazione perugina no-profit Tamat (che vuol dire “albero” nella lingua dei Tuareg): quale esperienza abbiamo dei cittadini di questi Paesi così lontani dal nostro che vivono queste difficoltà tutti i giorni? Forse il nostro unico contatto con loro è quello che avviene tramite i rifugiati, o tramite i clandestini che sbarcano a Lampedusa e che consideriamo senza distinzioni analfabeti e ignoranti, quando non pericolosi e criminali. Ma di tanto in tanto scopriamo che tra loro ci sono medici, ingegneri, atleti destinati a diventare campioni internazionali, professionisti di buon livello o scienziati che le guerre nei loro Paesi o la fame spingono verso l’Europa in cerca di nuove prospettive. Cosa che in Italia non dovrebbe esserci così sconosciuta, visti i numeri sempre più grandi della cosiddetta “fuga dei cervelli”.
Riflettere su questi punti può se non altro aiutarci a cambiare una forma mentis che ci mette dei paraocchi e ci disabitua a pensare e a conoscere il mondo intorno a noi, assuefacendoci lentamente a stereotipi preconfezionati e ad un mondo di plastica basato sulle apparenza, strumentalizzato da un teatro in cui rischiamo di rimanere burattini a vita. Pensateci.
Informarsi è necessario non solo per capire, non vale solo quando si parla di immigrati, di economia, di politica o di pubblicità ingannevoli, vale per qualsiasi notizia leggiamo o sentiamo e per trovare una chiave di lettura a tanti fatti storici e attuali.

Dario Bovini

Ho molte passioni tra le tante spicca la lettura, faccio parte della redazione de IISaggiatore e quando scrivo, in quello che scrivo, ci metto sempre l'anima.

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