l’assenza del dissenso: l’astensionismo è comprensibile ma non giustificabile ( con Elena Ingaldson)

astenzionismo“C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino, e consiste nel togliergli la voglia di votare”. Così il poeta francese Robert Sabatier si esprime in uno dei suoi aforismi più famosi. La frase sembra adattarsi perfettamente a quello che deve essere considerato come il più consistente fenomeno socio-politico degli ultimi decenni. I cittadini hanno perso la fiducia in quegli uomini che li rappresentano e, per questo, non sentono più interesse nel dare il loro contributo alla formazione del Parlamento dello Stato.

Ciò risulta evidente dalla differenza tra le percentuali di votanti degli ultimi anni: nelle elezioni del 1976, dove i tre maggiori leader politici furono Benigno Zaccagnini per la DC, Enrico Berlinguer per il PCI e Francesco De Martino per il PSI, l’affluenza
alle urne fu del 93,40%; nelle elezioni del 2013, in cui le coalizioni erano guidate da Pierluigi Bersani, Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, l’affluenza degli italiani alle urne fu del
72,25%. In meno di quarant’anni l’astensionismo è passato dal 6,60% al 27,75%. Dal 1977 (anno in cui Berlinguer, con la “questione morale”, cominciò a denunciare la corruzione
dei partiti politici) in poi, il numero è continuato a calare, con la svolta negativa del 1992 (l’anno di tangentopoli). La rete di corruzione ha ormai contaminato tutto il mondo della
politica, investendo i singoli esponenti, che oggi non sono più esempio né di integrità, né di decoro, né di competenza. I numeri dei rilevamenti mostrano che “la frustrazione della
democrazia è stata interiorizzata”, “non si dice più (soltanto) sono tutti uguali perché tutti disonesti, ma: sono tutti uguali perché l’uno è uguale all’altro nell’inutilità e nell’inconcludenza” (G. Zagrebelsky). I politici si rivelano spesso anche
non lungimiranti, preferendo risposte superficiali e populiste che inevitabilmente, con il passare del tempo, risultano tristemente fallaci e rovinose. Se da una parte il popolo
ha perso fiducia nella classe dirigente, dall’altra la politica, sotto la pressione del mercato, riduce la centralità del ruolo del cittadino elettore, vedendolo come un “intralcio” alla
governabilità tecnica ed esecutiva necessaria per stare al passo con gli orientamenti variabili ed interessati della economia e della finanza. I politici, dunque, non contrastano
l’astensionismo se non con retorici discorsi di rammarico, perché non è nei loro interessi contare su soggetti critici. Forse l’astensionismo potrebbe essere determinato dal passare
del tempo: si perde cioè la memoria di forme peggiori di governo e dell’importanza della conquista del voto. La grande partecipazione nelle prime elezioni del dopoguerra
si giustifica anche per il desiderio dei cittadini di recuperare la libertà politica persa nel periodo fascista e di adempiere a quel diritto che la nuova Costituzione repubblicana assicurava. Secondo alcuni la non-partecipazione al voto potrebbe
contraddistinguere proprio le democrazie mature, dove si assiste ad una diminuzione dei votanti in quanto, dopo il conseguimento dei diritti individuali, viene meno la
motivazione all’impegno ed all’espressione politica. Ma l’astensionismo
non denota maturità. La nostra Costituzione prevede che “il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”. Nonostante la cosiddetta crisi
delle ideologie (che fa pensare che anche gli ideali possano diventare “liquidi”), l’insinuazione della sfiducia, della delusione e dello scetticismo – che rendono il voto stesso una “scelta”, spesso anche difficile – siamo in dovere di continuare a votare, sia per riconoscere l’importanza della voce del singolo, sia per ricordare eventi che non  dovrebbero ripetersi e che furono determinati dall’“assenza” della voce di molti.

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