Hôtel de Ville

Lo avevo notato, qualche volta, nei corridoi della scuola. Era un ragazzo alto, con i capelli ricci, sempre fuori posto; gli occhi erano profondi e scuri, il suo naso leggermente pronunciato. Indossava sempre un lungo cappotto nero e si trascinava dietro una vecchia cartella di pelle scura e lucida, rigonfia di libri e fogli.

Cécile, una delle mie migliori amiche, diceva che era il migliore del suo corso. Ci rivolgemmo la parola per la prima volta dopo un incontro dell’università
sulla letteratura classica. Ci trovavamo in disaccordo sulle opinioni del rettore. La sua
voce era bassa e mentre parlava, gesticolando come un matto, sorrideva e gli occhi gli si illuminavano. Ad ogni parola si infervorava sempre di più, convinto che la sua teoria fosse corretta. Tutto d’un tratto si fermò, aggrottò la fronte e mi guardò con attenzione. “Sente freddo, signorina Dupont?”, chiese. “Cosa? Oh… no, no, non si preoccupi signor Dumas,
sto bene!” “Va bene ma lasci che le offra un thè caldo!” “D’accordo!”, acconsentii ridacchiando. Ci sedemmo poco dopo al Café de Flore. Parlammo per ore, ma, allora, sembrarono solo pochi minuti. Gli raccontai di me, del mio sogno di diventare
scrittrice, della mia passione per la letteratura e per la storia. Gli raccontai di papà, che aveva combattuto al fronte contro i tedeschi e che ora era tornato e stava bene. Gli raccontai di me e di mamma che aiutavamo i partigiani a passare il fronte
e di mia sorella che finalmente si era sposata ed era madre di due bellissimi bambini: Jean e Marie; e di Toby, il dolce e vecchio cane di famiglia, che come Argo aspettò il ritorno del padrone prima di morire. E lui, Paul, fece altrettanto con me, mi raccontò la sua storia. Il padre, anche lui soldato, ferito ad un braccio oramai inutilizzabile, il fratello, che si era trasferito in Italia e la sorellina, Hélène, che spesso aiutava con i compiti per casa. Mi parlò della sua rabbia nei confronti di Hitler e di tutti coloro che hanno portato morte e distruzione in questo mondo. Del suo sogno di giustizia e pace e di quello
di diventare ingegnere. Quella serra mi accompagnò a casa e, al chiarore pallido della luna, mi chiese di poterci incontrare altre volte. Era il 12 Gennaio 1950 e Paul Dumas era appena entrato nella mia vita. I giorni passavano, lenti, nell’attesa che Paul mi facesse sapere qualcosa e, finalmente, dopo una settimana dal nostro primo incontro, mi invitò a vedere Cenerentola, un film americano uscito da poco. A quella seguirono numerose uscite; incontri universitari, un caffè a fine giornata. Ogni scusa era buona per stare insieme. Inizialmente non dissi niente a nessuno, neppure a Deborah, che consideravo
come una seconda sorella. A quanto pare, però, la mia “infatuazione” era più che evidente e dovetti ammettere con me stessa la dolce verità: mi ero innamorata. Ma il mio amore era corrisposto? Paul cosa provava nei miei confronti? Amicizia? Affetto fraterno? Amore? Poi, le vacanze estive arrivarono e lui partì per l’Italia, a trovare suo fratello. Non ci saremmo visti per tutta l’estate, ma ci saremmo comunque mandati della corrispondenza. Nelle sue lettere parlava della campagna italiana, dei canti dei grilli di notte, del limpido mare della Sicilia nel quale vi ci si poteva specchiare e delle magnifiche città
piene di storia e di cultura che avrebbe voluto visitare con me. Io, d’altro canto, vivevo nella mia quotidianità in attesa del suo ritorno che, di giorno in giorno, si faceva sempre più vicino. Finalmente, il primo Settembre 1950, Paul fece ritorno
a Parigi, giusto in tempo per l’inizio dei corsi. Lo andai a prendere alla stazione di Châtelet – Les Halles. Quando alzò lo sguardo e mi vide, fece un sorriso che non dimenticherò mai. Lui si avvicinò e improvvisamente mi tirò su da terra facendomi ruotare, con me che ridevo e lui che continuava a sorridere con occhi luminosi come stelle in una notte senza
nubi. Mi poggiò al suolo e disse: “Mi sei mancata, Sophie!” “Anche tu mi sei mancato, Paul.”, rivelai abbracciandolo stretto a me. Mentre ci dirigevamo verso il nostro caffè preferito mi raccontò nei più minimi dettagli il suo viaggio, ridendo e scherzando dei divertenti aneddoti sulla sua famiglia. Improvvisamente, davanti all’Hôtel de Ville, si fermò in mezzo alla strada e mi baciò. Subito mi scordai degli spettatori attorno a noi e mi abbandonai a lui. I nostri piedi si staccarono dal suolo e, incuranti degli sguardi, ci alzammo in volo. Tutto il mondo si fece bianco, c’eravamo solo io e lui e nessun altro.
Quando ci staccammo rimanemmo fermi, a guardarci negli occhi limpidi e illuminati dalla luce del nostro amore, sorridendoci complici, come se avessimo avuto un segreto che doveva rimanere nostro e di nessun altro. Quasi dieci mesi dopo, il 21 Giugno 1951, nel dolce tragitto tra giorno e notte, illuminato dalla luce tenue e rosea del sole, Paul, in
ginocchio sul Pont de l’Archevêché, mi chiese di sposarlo.

Lucia Temperini

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