Samoa is the New Black

Se per caso avete aperto Facebook o Instagram questi giorni, vi sarete sicuramente trovati sommersi da strane frasi, come quella sopracitata, oppure foto a dir poco anormali con hashtag del tipo: #consules, #NewYork, #vincenzoromanoilmeglio, nelle quali si intravedono galileiani mezzi sorridenti (e mezzi sonnolenti) che tengono in mano placard e badge stravaganti.

Non vi preoccupate, il Saggiatore è qui per chiarirvi le idee. Essendo una di quei pazzoidi che hanno deciso di intraprendere il progetto High School Model United Nations, coordinato da Consules, mi sento in dovere di fornire spiegazioni al resto del corpo studentesco; per chi vivesse sotto un sasso, o frequentasse il biennio, il progetto consisteva in una simulazione di vere e proprie conferenze delle Nazioni Unite: noi studenti ci siamo impersonati delegati di uno stato precedentemente assegnatoci (nel nostro caso Samoa) alle Nazioni Unite, o meglio a New York. Ma non pensate che sia stato tutto rose, fiori e Statua della Libertà, abbiamo infatti lavorato molto duramente: dopo aver passato un test in lingua inglese inerente alla Carta delle Nazioni Unite, ci sono toccate ore e ore di lezioni, tenute da professori universitari, su storia e tradizioni del paese da noi rappresentato, su regole di procedura nelle diverse sessioni, risoluzioni, organizzazioni varie e su come parlare in pubblico in maniera ottimale. La storia, però, non finisce qui: ci siamo dovuti cimentare nella stesura di un “position paper”, ovvero un documento di ben 15 pagine nel quale si espone un determinato problema internazionale, che avremmo poi dovuto discutere in sessione a New York, tenendo conto della posizione del nostro stato in proposito (vi potete immaginare la posizione di Samoa, un’isoletta del Pacifico, sul problema della povertà dell’Africa Sub Sahariana). L’obiettivo della simulazione era, in conclusione, quello di produrre una risoluzione inerente al problema, seguendo i canoni delle Nazioni Unite. Ma aspettate, il “peggio” deve ancora venire: prima di partire per New York, Consules, l’organizzazione che sponsorizza il progetto internazionale in Italia, ha accolto noi ed altre scuole italiane a Roma, dove si è svolta una pre-simulazione del progetto a livello nazionale; per metterci ancor più sotto pressione, come del resto accade ai veri e propri delegati, i “piani alti” hanno deciso di assegnare ad ogni singola persona, una settimana prima, un differente stato ed altre questioni internazionali su cui dibattere. Pur non sapendo esattamente come, siamo riusciti a prepararci al meglio, rispondendo ai requisiti del progetto, sponsorizzando risoluzioni, ed arrivando addirittura alla vincita di premi per il nostro impegno a Roma; si vede che il Galilei è un marchio di qualità. È ormai giunta l’ora di cambiare paese: arrivati a New York ci è stato concesso di fare i turisti per un giorno (e mezzo), visitando Ground Zero, Guggenheim Museum, Central Park, MoMA, Times Square, Wall Sreet e moltissimi Starbucks. Cari professori, non allarmatevi, abbiamo motivi validi per non esserci portarti dietro libri di testo e quant’altro, come le faticose giornate spese in sessione dalle nove di mattina alle undici di sera.

Sessioni per cui ci eravamo preparati più che adeguatamente, come può testimoniare l’esperienza di Roma, e che ci hanno spiazzati non poco. Sessioni avvenute in hotel senza banchi o abbastanza microfoni da poter utilizzare per i dibattiti formali (la cui mancanza si è fatta sentire), e tenute non da adulti che avevano completato il proprio corso di studi in politica internazionale, come avevamo precedentemente sperimentato, bensì da ragazzi di qualche anno più di noi, che magari erano nel processo di laurearsi in ambiti molto poco inerenti alla carica assegnatagli. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata però la vicenda dell’ultimo giorno: la mancata cerimonia di chiusura del progetto presso la vera sede delle Nazioni Unite. Dopo essere stati due ore in fila “al freddo e al gelo”, perdendoci metà della cerimonia, ci è stato negato l’accesso alla vera e propria stanza della General Assembly, e abbiamo dovuto assistere alla diretta in una piccola sala conferenze, su due schermi televisivi. Va comunque fatto presente che ci siamo divertiti, eccome: non solo abbiamo avuto modo di vivere la famosa “city that never sleeps” (questo aspetto l’abbiamo preso forse un po’ troppo alla lettera…), ma un vero delegato delle Samoa è volato da noi per offrici la possibilità di capire a fondo il funzionamento delle isole, aprendoci un mondo tutto nuovo. Nemmeno il lato umano del progetto è da sottovalutare: abbiamo potuto incontrare persone da tutto il mondo che erano là per capire, assieme a noi, questo strano organo che è le Nazioni Unite, il quale tenta da anni di porre fine ai conflitti internazionali di maggiore rilievo e di difendere i diritti umani di noi tutti, il ché ha contribuito ad arricchire il nostro bagaglio culturale personale; in conclusione, noi studenti e partecipanti del Galilei, assegnamo al progetto un bel 7.5, sperando in un qualche miglioramento, soprattutto a livello organizzativo, per l’anno prossimo.

 

Laura Josephine McNeil

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