La morte di un liberale

27 febbraio, quattro colpi di pistola colpiscono alla schiena
Boris Nemtsov, uno dei leader dell’opposizione russa, a pochi
metri dal Cremlino, un delitto che ha tutte le caratteristiche di
un omicidio su commissione.

Colpevole di esprimere apertamente
opinioni contrarie a quelle del presidente, Nemtsov
era anche una delle poche figure politiche di primo piano che
avevano osato criticare l’annessione della Crimea e l’appoggio
di Mosca ai separatisti dell’Ucraina dell’Est. Boris aveva
avuto anche l’incredibile coraggio di attaccare Putin per le
spese sostenute nell’organizzazione dei giochi invernali di
Soci. Non faceva nulla per attirarsi le simpatie del russo medio,
che adora le arroganze del presidente e le sue frequenti
denunce di casi di corruzione e di violazioni dei diritti umani
non lo rendevano il benvenuto al Cremlino. L’uccisione
di Boris Nemtsov è avvenuta nel contesto di una campagna
di odio senza precedenti nella Russia contemporanea. La tv
nazionale continua, incessantemente a ripetere che agenti
stranieri minacciano la sicurezza nazionale. All’opinione
pubblica è trasmessa l’idea di una fortezza assediata, così
oggi è possibile screditare chiunque critichi e si opponga al
potere. Chi chiede più fondi per istruzione e sanità è un’agente
degli ucraini, chi lotta contro la corruzione un’agente
occidentale, chi è favorevole alla libertà artistica è un nemico
della religione. La realtà creata dai mezzi d’informazione si
stà trasformando nella realtà per i cittadini russi. Tre anni fa
l’opinione pubblica reagiva, cercava di comprendere prima di
schierarsi con le autorità, cercava almeno di capire chi fossero
le Pussy riot. Ma nell’ultimo anno la situazione è cambiata,
il marchio d’infamia dato dai mezzi d’informazione è sempre
accettato come una verità. La campagna d’odio è uscita
dalla sua cornice mediatica, il punto non era capire se si sarebbe
arrivati ad una vittima, ma chi sarebbe stata la prima.

Vito Saccomandi

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